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La dialettica del preservativo.

Mi scivola dentro piano, guardandomi negli occhi. Lo so che dovremmo.

Lo so che gli dovrei dire “usiamo qualcosa?” e lui a quel punto dovrebbe tirare fuori un preservativo. O dovrei farlo io.

Ma è questo: la carne è carne. Ce lo siamo anche detti.

La carne è carne e abbiamo limitato qualsiasi interruzione.

“Il bagno è lì se hai bisogno” mi ha detto quando siamo entrati.

Ha un appartamento piccolo, pulito, ordinato, di chi ha messo a posto perché il proprio disordine gli avrebbe creato imbarazzo.

“Spogliati, io arrivo”

Ne abbiamo discusso e abbiamo tagliato la testa al toro. “Mi sono fatto dei controlli poco tempo fa” e così sia.

Dovremmo, lo so, dovremmo. Ma la carne è carne e questa cosa di fermarsi per mettere qualcosa non lo stiamo facendo. Come probabilmente non l’ha fatto con tutte le altre che vede, e che gli scrivono.

Non ha messo la musica che ha promesso, ma la sento rigirarmi in testa. La sto ascoltando anche adesso.

Non lo stiamo facendo in modo sensato. Dovremmo. Dovrei, io più di lui per quello che scrivo. Dovrebbe lui che ha donne e storie. Dovremmo perché si. Ma la carne è carne e nessuno dei due vuole sentire nulla nel mezzo.

Dovremmo per amor del vero, per la credibilità. Dovremmo perché tutto concorre a dire “fallo”. La responsabilità. Eppure siamo noi, qui, la nostra voglia e le mani.

I suoi “dimmelo ancora” e i miei sussurri indecenti, di cose che non si dicono a voce alta.

Basterebbe un “usiamo qualcosa”. Basterebbe interrompersi, sorridersi, infilare un preservativo, farlo diventare un gioco di coppia.

Perché è questo che non va nei profilattici, inutile che ce lo raccontiamo. Che la carne è carne e la responsabilità non basta a metterlo nel mezzo. Perché può essere ragionevole quanto vuoi, può essere sensato, necessario, utile. Ma non c’è niente di sexy in un gommino. Non ce n’è neanche in una malattia venerea, non per forza nell’HIV.

Mi sfilo da lui per prendere fiato, perché mi dice “se fai così vengo”.

Mi tolgo.

E allora è meglio che si, per un sacco di buoni motivi.

“Usiamo qualcosa?” propongo.

Annuisce.

Ha detto che se volevo l’avremmo usato. E quindi eccoci qui. Li tiene a portata di mano nel cassetto del comodino. Vicini, rispetto a uno che non li usa mai. Il problema è farla diventare una cosa sexy. Un gioco a due. Non un impegno ma un picco di erotismo. E voglio che sia così anche per noi.

Voglio che se lo ricordi come il più memorabile preservativo della storia.

Lo scarto, controllo il verso da cui srotolarlo. Poi mi chino su di lui.

Si aspettava che glielo consegnassi, si vede che se li è sempre messo da solo.

“Faccio io” quasi gli soffio le parole accanto alla sua abbondante erezione. Si, te lo infilo io questo vestito su misura, l’apparecchio io la tavola del piacere. Confeziono io la carne.

Mi accoccolo tra le sue gambe, guardo l’asta verticale da vicino: mi piace studiare gli uomini così, a pochi millimetri dal piacere.

Disegno cerchi concentrici sulla sua punta col pollice.

Poi gli faccio calzare la punta del cazzo nel preservativo come fosse una calza da infilare. Rivestire, alle volte, può essere sexy quasi come spogliare.

Srotolo il lattice piano verso il basso mentre con la lingua rendo ancora più scivolosa la strada fino alla base. Lavoro con una mano e poi con l’altra, vestendolo lentamente un millimetro alla volta. Gli bacio lo scroto nudo che si gonfia ancora di più. È bastato questo a far crollare ogni scusa.

Mi fissa così, da sdraiato, con le braccia conserte dietro la testa. Pizzico la punta del preservativo per controllare che l’aria sia uscita dal serbatoio in cima. Gli tengo con due mani la base del pene e mi metto cavalcioni.

“Sei pronto?” è un annuncio di guerra, il mio. Non si fanno prigionieri. Ti voglio morto dal godimento, sfinito dagli orgasmi. Voglio il tuo cadavere su questo letto, senza fiato dalla gioia di avermi incontrata.

Mi calo col mio centro perfetto su di lui. Mi sente tutta fino in fondo.

Scendo su questo binario unico senza sosta. Non ci sono fermate nel mezzo. Si arriva fino in fondo, a fine corsa, carne contro carne, pelle contro pelle, tutto dentro fino a che puoi, fino a che ce ne sta.

Tutto intero. Senza freni.

Si inarca trafitto dal piacere. Trafitto da me. Come se le anatomie si fossero scambiate. come se fossi io, ora, quella capace di ferire.

Com’è che nessuno ha ancora fatto un ritratto così, di te che godi? Dovrebbero fare un monumento a una cosa così bella, a un respiro così lungo.

Fuori intanto si mischiano le cicale con i camion della provinciale, una tv in lontananza, sfumano i vociare dei bambini e dei tuoi vicini fuori dalla penombra delle persiane socchiuse.

Visto? Alla fine non è così male usare qualcosa. Soprattutto se te lo metto io.

La carne è carne anche così.

Ora lasciami andare avanti a stropicciare le tue lenzuola che sanno di fresco, lasciati strappare qualche sospiro dalla gola, lasciati andare. Fammi piangere sul tuo, di latte versato. Fammi piangere di piacere, che ne ho bisogno. Scolami addosso tutto quello che puoi: è l’unica cosa che voglio da te.

La carne è carne.

E io ho fame di te.

 

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  1. Antonio says:

    Valentina…! Mamma mia che testo stupendo… Fortunato chi ti incontra… Lo userei volentieri qualcosa con te. La mia erezione vorrebbe chiederti un autografo. Oltre a essere terribilmente eccitante, scrivi benissimo! Complimenti. Un bacio.

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