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Non capisco un cazzo di vino.

Non capisco un cazzo di vino. Ma niente proprio. Da brava sexblogger qualcosa dovrei sapere qualcosa sulle doti afrodisiache, dovrei conoscere qualche elemento narrativo e olfattivo. E invece niente.
Non mi accorgo se sa di tappo, se sta andando in aceto, se è buono o fa schifo.
Non capisco i profumi. Non li riconosco.
Speravo che il vino mi potesse aiutare a compensare le orribili lacune in geografia. Mi son detta “il vino mi piace: se associo vino e regioni ce la farò a ricordarmi luoghi, province e città”. Non sono stata fortunata. Non lo capisco e non me lo ricordo.

Il vino non mi parla. Il vino mi bestemmia.
Il vino mi piace, mi piace davvero, ma io non piaccio a lui.
Chianti, Barolo, Teroldego. Boh. Mi potete mettere davanti qualunque cosa colorata di rosso o di colore paglierino e la farete franca. Non ci capisco niente.
Prenderò in mano il bicchiere – ovviamente non dallo stelo, ma dalla boule, (si chiama così? Probabilmente no)- scaldandolo e facendovi inorridire.
Caccerò il naso nel vetro aspirando e mormorando “mmmh”. Ma tanto non ci capisco un cazzo.
Non capisco perché mi piace. Non saprò darvi l’elenco degli aromi da cui è composto. Saprò dare solo un elenco imbarazzante di strane visioni, comparazioni improbabili, sinonimi evocativi del tutto fuori luogo.
Riesco a dire quello che mi stranisce. Ecco, si, potrei fare le recensioni al contrario, quelle di “non berlo perché”.
“Sorseggi e cazzeggi” potrei chiamarlo. Oppure “Vino ad Minchiam”. Robe così.
Il meglio di me l’ho dato un paio di volte di fronte ad amici sommelier.
Una volta mi hanno fatto assaggiare al Vinitaly un vino frizzante ricavato dalle vigne coltivate sulle pendici di non ricordo quale vulcano. Vista la mia ritrosia a dire cosa ne pensassi, mi hanno detto di descrivere a parole mie quello che mi suggeriva il vino.
Ho detto “mi sembra di leccare i sassi”. Ecco, si, perché il vino spesso ha la facoltà di sussurrarti ricordi. E i miei non sono esattamente poetici. Quello mi ha fatto venire in mente i giochi di bambina, i sassi leccati, e ancora di più quando si leccavano i temperini sul lato: quelli doppi da due buchi, grigi, di metallo – quelli avevano un sapore ferruginoso e asprigno, indimenticabile. Aveva quel sapore lì. Convincervi che fosse buono e particolare mi risulta difficile. Pare però che ci avessi preso perché aveva un “forte sentore minerale”. Tradotto: se avete leccato sassi sapete cosa intendo.

Il vino a me suggerisce minchiate. Come quella volta che un cliente ci ha fatto assaggiare una bottiglia del suo vigneto- una un po’ “andata” un vino che “ormai ha dato” – come si dice in gergo e ho esordito con un “sa di pneumatici usati”. Però quelli, giuro, non li ho mai leccati. Gli altri hanno abbozzato con un “diciamo che ha sentore di idrocarburi”. Ecco.

Io sono quella dalle figure (di merda) retoriche. Quella dalle descrizioni da miscredente.
Quella che fa ribaltare il vino nella bara e nel barrique.
Io il vino non lo capisco. Come il jazz, come Capossela o come David Foster Wallace. Non metto in dubbio la grandezza, solo che non capisco.
Colpa mia.
E vi invidio, giuro che vi invidio da morire quando con quel cipiglio sicuro osservate il vino come gli orafi i metalli preziosi, e poi odorate prima con una narice, poi con l’altra, guardate gli archetti, dite cose sul tannino, elencate frutti e terreni, rugiade di bosco e sentori di cose che avete percepito sondando i profumi.
Vi ammiro quando degustate una stilla, ma poca davvero, e la rigirate in bocca pensierosi, come se vi venisse da leggerlo quello che sentite, annuendo e confermando quello che la vista e l’olfatto vi hanno detto.
Poi sentenziate “è buono!” oppure criticate con un “vino beverino, non male”, o ancora con qualche indecisione dite quello che non vi convince tanto.
Vi invidio. Vi invidio come quelli che capiscono le lingue morte. Vi invidio in modo sano come quelli a bordo pista che ammirano quelli che sanno ballare la salsa e il merengue, ma loro non si scollano dal muro.
Vi invidio come quelli che fissano i cantieri.
Io vi guardo con quello sguardo lì, di quella che non ci capisce un cazzo, ma a cui piacerebbe tanto. E invece.
Lo so che potrei fare qualche corso per capirci qualcosa, qualche primo livello.
Lo so, ma il fatto è che mi piace osservare voi, non me, col bicchiere giusto in mano, controluce, dichiarando “che bel rosso rubino”.
Io sono una non astemia ignorante e felice.

E mentre voi degustate, ammirate, criticate, sciacquate, riassaggiate, assaporate e avvinate, io tracanno il mio bicchiere annuendo e dandovi ragione.
Sentenzierò anch’io qualcosa dalla mia becera precaria pochezza dicendo un convinto “è buono”.

Ma una cosa vi prego di non farmi mai: non mettetemi l’aceto nell’insalata. Mai. L’aceto lo odio proprio. Perché l’aceto è vino andato a male. E per me questa cosa è culinariamente inaccettabile.
Perché va bene non capirci un cazzo di vino, ma non esageriamo!

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